Preceduti da una
Nota di Enrico Capodaglio e ripartiti in
quattro sezioni, i testi della silloge - poesie e brevi prose "metriche"
- presentano un io intento a sceverare, con lucida acribia, il grumo di
dolore che gli ha radicato dentro l'"innaturale maniera di
sopravvivere" in una realtà raggelata. Si tratta di un io femmina, di
una
Elle, la cui scrittura, sintomaticamente, assume il corpo non
solo come carne sensibile alle trafitture di quel grumo di dolore, ma
anche come centro di controllo, da parte della stessa, del persistere
della propria identità ("Mi chiedo se sono ancora io, / se ancora sono
in possesso del mio corpo"),
Per questo la protagonista
della poesia di De Signoribus si autorappresenta nell'atto di vivere
angoscianti situazioni beckettiane - fra stanze zeppe di oggetti,
corridoi, pianerottoli, bui cunicoli -, nelle quali affiorano straniti
lacerti di vita, echi di voci, "stracci di lingue clandestine", di
rabbie, rancori, desideri, rimorsi, e dove ogni movimento le viene
imperdito (si veda
La preghiera). Oppure si mimetizza nelle
enigmatiche creature, Elsa, Anna, Emma, le parlanti le "lingue
clandestine", convocate sul proscenio del teatrino d'ombre animato dai
testi, nella cui eterna vicenda di sogni infranti, di pena, di
sopraffazione, di noia, di disamore, consumata nel chiuso di
stanze-prigioni e osservata con sororale
pietas, lei si proietta e
si riconosce: "io contemplavo la ferita di Emma che Anna lasciava
sanguinare".
Benché vi compaia qualche consonanza di rime
("in un tracollo
fitto e
irto / che forse sarà
descritto
a pagina..."), non c'è musica né canto, in queste corrusche-aguzze,
intense, scritture; c'è, invece, il basso continuo alimentato dai
borborigmi di una
Elle in sofferenza, ormai rassegnata a
pronunciare smozzicate spoglie di parole (di cui si "sovviene il suono,
non il senso") in un mondo dove "tutto quello che viene detto è
irrilevante / e senza eco".
Franco Pappalardo La Rosa